L'articolo che sto per pubblicare ha avuto luogo nel 2006 ed è stato pubblicato sul sito
www.libreriadelledonne.it
Sabato 21 gennaio alla Libreria delle donne ha avuto luogo il primo degli incontri del ciclo Tra il matricidio e il monumento alla madre: la politica
delle donne. Lo scopo di questo lavoro, a cura di Sara Gandini, Laura Colombo e Serena Fuart è esplorare il senso e la complessità della relazione tra
donne e della relazione madre/figlia, e verificare la forza delle genealogie femminili al presente.
Ha senso quindi ritornare a mettere al centro il rapporto con la madre, perché l’irrinunciabile libertà arrivata fino a noi dallo spostamento operato da
pensiero della differenza presenta lati d’ombra troppo spesso elusi. Nel primo incontro è stata ospite la psicoanalista Luisella Brusa che, a partire dai suoi lavori e dal suo testo Mi vedevo
riflessa nel suo specchio ha indagato aspetti della
sessualità femminile che spiegano l’oscuro e il negativo della relazione tra donne a partire dalle teorie lacaniane.
Tra il matricidio e il monumento alla madre
Tra il matricidio e il monumento alla madre: il titolo è evocativo, e dice molto di noi che lo abbiamo pensato e messo in capo a questo ciclo di incontri – con queste parole inizia il
suo intervento Laura Colombo. Intervento che riporto interamente.
“Il matricidio innanzitutto richiama la cultura patriarcale, il fatto che a fondamento della nostra civiltà sta un matricidio impunito. Irigaray sostiene che il patriarcato deriva dal matricidio
e dall’assunzione progressiva del maschile a simbolo universale, a unica forma di mediazione (pensiamo al fatto elementare del genere nella lingua italiana).
In Sessi e Genealogie scrive: “Oreste uccide la madre perché lo esige l’impero del Dio Padre e lo esige il suo appropriarsi delle potenze arcaiche della madre terra”.
Ma in un certo senso anche il monumento alla madre sta dentro la cultura patriarcale, nel senso che il posto della madre è l’unico davvero legittimo per la donna all’interno del patriarcato.
Il rigetto della figura materna (qualcuna lo chiama matricidio – per esempio Dominijanni) è anche stata una delle mosse che una parte delle femministe ha fatto per ottenere l’inclusione nel mondo
degli uomini, l’emancipazione da uno stato di subordinazione. In questa logica sta il rifiuto della madre, la negazione della differenza sessuale e il puntare su una politica di parità. Tutte
cose che avallano l’assunto patriarcale del marchio di inferiorità che accompagna la donna (il suo corpo, il suo legame con la vita come immediatezza - la donna è vista come meno umana, vicina
all’animalità, essendo legata alla riproduzione e al corpo).
Però negli anni Settanta alcuni collettivi femministi operano un radicale spostamento di paradigma: non solo valorizzano la differenza femminile, ma mettono al centro il rapporto con la madre,
luogo dell'origine e contemporaneamente di una censura che non ha permesso la libera significazione di sé.
Si sottraggono in questo modo alla relazione di produzione e riproduzione patriarcali, per cercare un ordine simbolico che permetta di dare un senso al proprio essere donna e consenta di
stabilire relazioni libere tra donne e con l’altro sesso. Alcune (e Luisa Muraro tra queste) l’hanno chiamato ordine simbolico della madre, e hanno parlato di lingua materna, la
lingua che viene trasmessa e insegnata dalla madre.
Le pratiche politiche che maturano nel femminismo della differenza (non solo italiano), partono da due punti fondamentali:
1) c’è la valorizzazione della differenza femminile (pensiamo a Carla Lonzi e il suo gruppo Rivolta e al gruppo DEMAU);
2) c’è la valorizzazione della relazione materna;
3) a questo punto la mossa delle francesi (Luce Irigaray e Psychanalyse et Politique) e delle italiane è stata l’apertura alle genealogie femminili e alla figura
materna;
A partire da questi presupposti la pratica politica della differenza si basa sulla relazione privilegiata tra donne, e l’immaginario fa riferimento alla figura simbolica della madre (parlo di
immaginario perché la figura della madre simbolica è ripresa – nel Catalogo giallo – da Gertrude Stein, che parla in questi termini di una femminista dell’800. quella della madre
simbolica è una figura che non appartiene all’ordine della necessità ma a un immaginario vasto, anche religioso, ma anche le Madres argentine ecc).
In questo modo, una soggettività femminile non asservita e intensa si alimenta, prende forza e consapevolezza dai rapporti tra donne, e la differenza si pensa secondo una dimensione orizzontale e
verticale insieme. A questa forza le donne della nostra generazione non possono rinunciare. Non possiamo più fare a meno del potenziamento d’essere inaugurato dal femminismo, e sappiamo bene da
dove ha preso origine.
Per noi (e non solo) ha un senso ritornare a mettere al centro il rapporto con la madre, perché l’irrinunciabile libertà arrivata fino a noi dallo spostamento operato da pensiero della differenza
presenta lati d’ombra troppo spesso elusi da una retorica trionfalistica.
Qui parlo di me e della fatica – che coesiste con la forza di cui parlavo prima e che quindi indica un paradosso – di esserci pienamente nelle relazioni con donne che mi hanno preceduta cui
attribuisco intelligenza, acume, profondità, sapere, sapienza politica ecc. Fatica di spendere – all’interno di relazioni segnate dall’autorità femminile – quel po’ di essere guadagnato, nel
momento in cui confondo l’autorità col potere nel suo senso coercitivo, e mi consegno cieca e muta all’altra (che peraltro non sa che farsene di questo mio non-essere).
È una fatica che a volte è disagio, che spesso percepisco diffuso e serpeggiante anche qui, che sta nel cono d’ombra (come lo ha definito Chiara Zamboni a partire da
Virginia Woolf nel grande seminario di quest’anno) della relazione con la madre, in quella parte di confusione inconscia, sofferta e senza parola tra la madre e la figlia, parte
che evidenzia il bisogno di una messa in parola. Magari per dire – semplicemente – che questa opacità è necessario accettarla.
Per me parlo di fatica, di una lotta per esserci, appunto perché oggi sto parlando. Ma proprio patendo e riconoscendo questa fatica, proprio dal luogo della fatica abbiamo potuto chiederci che
cosa ci permette di parlare, sempre di più e meglio. Ed è – come ha già detto Sara – una certa distanza ricercata intenzionalmente (nonostante all’inizio sembrasse un po’ un caso), uno spazio
creato e praticato – innanzitutto con Sara ma non solo – in una dimensione orizzontale che non annulla la disparità, solo rende più praticabile la circolazione di autorità.
Parlavo di retorica trionfalistica e voglio spiegarmi: non si tratta qui di smantellare quanto di prezioso è stato fatto da chi ci ha preceduto – sarebbe una sorta di matricidio rinnovato –
ma noi arriviamo dopo, e certe volte ci sembra che si voglia far quadrare il presente con il passato, come se i conti debbano per forza tornare.
C’è anche un altro aspetto che Diana Sartori descrive nell’ultimo libro di Diotima. È (sono le sue parole) “la tendenza a scivolare nella “liturgia materna”, in una visione edulcorata del mondo
delle relazioni femminili, imbellettata e che finisce sempre in gloria; un certo tono salvifico riguardo la politica delle donne come palingenesi della società (…). Il tutto in onore della
grandezza materna, della libertà femminile, della forza che la nostra politica fa circolare tra noi”. Insomma, altro non è che la retorica di un’ideologia.
Le parti del libro di Luisella Brusa che più mi hanno coinvolta stanno appunto nella prospettiva della differenza che fa problema, di quello squilibrio nelle relazioni che può mettere in scacco,
di quella parte più arcaica della relazione con la madre che inchioda nella dicotomia rifiuto/idealizzazione (una dinamica che si ripete nei rapporti tra donne).
Premetto che oggi questo mi interessa discutere con lei, e naturalmente ciò non esaurisce la complessità e l’eterogeneità del suo testo. Che analizza il rapporto madre-figlia per disegnare un
orizzonte più ampio, e tematizzare il rapporto donna-madre – e lo fa nella prospettiva di Lacan, autore che ha un pensiero della differenza sessuale.
Sara ha già parlato della devastazione, che si compie ogni volta che la relazione tra donne oltrepassa una certa soglia, e Brusa scrive: “La devastazione è strettamente legata all’attesa, alla
domanda. Una donna si attende qualcosa dalla madre. In luogo di questo qualcosa che è atteso incontra un’altra attesa, speculare, un vuoto che causa un gioco di specchi, un labirinto. L’attesa è
l’attesa di un riconoscimento che sanzioni un godimento sospeso. Una sanzione che lo marchi, lo riconosca e lo introduca nel mondo degli scambi possibili, almeno tra donne. (…) L’unico modo che
ha questa domanda di non produrre devastazioni è quello di mantenersi come domanda sospesa, in attesa”. (p.56) I casi che Brusa ci presenta nel libro sono paradigmatici: per esempio Simona, la
cui femminilità è “congelata nell’anoressia”, in balia del capriccio materno.
La madre la adora e si sacrifica per lei e contemporaneamente la disprezza, annunciandole una stupidità che non potrà sfuggire e inchiodandola lì. La madre davanti ai figli irride il marito. Così
Simona è fissata nell’attesa “che dalla madre venga una soluzione al suo essere”.
Per Laura è diverso: apparentemente ha una vita riuscita, un lavoro, un marito, un figlio. Ma proprio la maternità riattualizza la devastazione. Anche Laura è stata inchiodata dall’adorazione
assoluta che la madre aveva per lei, perché la contropartita era la conferma incondizionata della madre da parte della bambina. Infatti se la madre (sono le parole di Luisella Brusa)
“interpretava qualche atteggiamento della bambina come un rifiuto, le sue affettuosità si trasformavano improvvisamente in attacchi di violenza accompagnati da uno sguardo d’odio”. Così
l’esperienza della maternità è per Laura il momento di riattualizzare l’angoscia di morte antica, che ora proietta sul figlio.
Un altro punto molto interessante del libro di Luisella Brusa è l’analisi del testo di Margherite Duras Il rapimento di Lol V. Stein, perché il rapporto tra donne in questo testo non è
disegnato sotto il profilo della devastazione bensì del rapimento. Brevemente i tratti della storia si possono riassumere così: una sera d’estate, al ballo del casinò di una località
balneare, una donna sconosciuta strappa a Lol V. Stein il suo promesso sposo Michael Richardson. La sconosciuta, Anne-Marie Stretter, trascina nella danza il giovane e Lol V. guarda rapita la
nuova coppia di amanti. Non è gelosa: i suoi occhi non si staccano dalla coppia che danza, e quando la coppia allacciata scompare per sempre dalla sua vita, Lol V. Stein è rapita oltre se stessa,
e continua a cercare smarrita ciò che le manca. La sua esistenza si raccoglie nel vuoto di quella mancanza. Duras scrive: “Mancava a Lol qualcosa per essere”. Tutto quello che avrebbe voluto era
fermare l’azione, ma l’impossibilità di questo la lascia come svuotata, assente, silenziosa, ammutolita in una vita ingorgata, senza tempo. Lola fa la morta, anche nella normalità troppo normale
del suo matrimonio borghese, normalità costruita come adesione totale alle istanze convenzionali a causa del suo vuoto d’essere. L’incontro casuale con Jacques Hold e con Tatiana Karl, compagna
di collegio e testimone della notte fatale, offre la possibilità di ritrovare l’antica storia e portarla finalmente a compimento. Ciò che spinge Lol è la necessità di vedere realizzato il suo
fantasma – la cui inattuazione aveva causato il vuoto d’essere – ossia l’essere in tre. Per questo si nasconde in un campo, da dove può spiare la camera d’albergo dove avvengono gli
incontri clandestini di Jacques e Tatiana: così può essere là dove si svolge l’amore, e può contemplare l’altra donna quando appare nella finestra, riappropriandosi infine di sé.
Il tentativo di Hold di riportare Lol al casinò, nel luogo dell’antico ballo, ed escludere Tatiana mettendo fine a quella triangolazione che per Lol è tutto, è un fallimento, e segna
probabilmente una strada di squilibrio totale per Lol.
È interessante questa necessità di “essere tre”, che viene delineata come uno dei percorsi che permettono a una donna di trovare la propria strada. Ricerca che deve accogliere il vuoto d’essere,
se non vuole infilarsi nelle scorciatoie della convenzione sociale o imboccare la via della psicosi.
La relazione madre-figlia: ‘il continente oscuro di tutti i continenti’ (Irigaray)
“Nel mio intervento tenterò di fare una gimcana tra il linguaggio e le tematiche più specificatamente psicanalitiche e il linguaggio e gli argomenti più legati alla politica delle donne, per
tentare di creare un ponte tra due ambiti che non sempre riescono a dialogare”.
Così Sara Gandini inizia il suo intervento che riporto integralmente.
“La psicanalista Faccincani, nel grande seminario di Diotima, spiegava: Il punto fondamentale nella relazione madre/figlia è l'identità e la differenza, ossia la coesistenza tra
dimensione speculare/identitaria e dimensione asimmetrica/differente. Nella relazione madre/figlia c'è la coesistenza della dimensione asimmetrica della differenza di posizione (chi genera e chi
è generato) e la simmetria dell'identità sessuale, diversamente dal figlio maschio.
Il pensiero della differenza ha nominato la relazione con la madre come una risorsa fondamentale, sostenendo che per una donna il momento più significativo in cui si gioca qualcosa della sua
identità e libertà e’ costituito dalla relazione genealogica con la madre. Non ha rinunciato quindi alla relazione con la madre, nonostante i conflitti, ma ha continuato ad investire, raccontando
il sapere, l’intelligenza che viene dalla relazione con la madre. Far riferimento alle genealogie femminili ha voluto dire cominciare a parlare della disparità nei rapporti fra donne e di
autorità femminile.
L’autorità femminile nasce dando inizio e coltivando relazioni significative tra donne, cioè quelle relazioni necessarie a una donna per rapportarsi al mondo. Rappresenta quindi la mediazione che
consente la realizzazione del proprio desiderio grazie alla leva della disparità fra donne. Cito dal sottosopra rosso: “autorità come una figura dello scambio, per cui nessuno, nessuna è
l'autorità, questa essendo invece riconoscibile nell'incremento che dà al circolo virtuoso delle relazioni mediatrici.” Il progetto del sito della libreria e’ un esempio della
possibilità di tradurre la relazione madre-figlia nella progettualità sociale, un esempio di come l’autorità possa circolare tra donne di diverse generazioni e le disparità possano portare ad un
rilancio del desiderio reciproco.
In questo contesto noi potremmo tentare di capire come la psicanalisi potrebbe tematizzare la relazione con la madre, nella crisi del patriarcato, e come tradurre il sapere psicanalitico in
politica. Quando e’ scoppiato il ’68 c’erano psicanalisti come Facchinelli che hanno tentato di capire come legare l’agire politico alla pratica psicanalitica, sarebbe interessante capire se dopo
i cambiamenti arrivati con il femminismo la psicanalisi riesce a trovare una strada stimolante in questa direzione.
Luisella Brusa nel suo Mi vedevo riflessa nel suo specchio ci racconta di casi clinici che mostrano la complessità della relazione madre-figlia, in cui ci sono opacità e zone d’ombra che
non sono ancora dissipate.
Da parte mia ho pensato di iniziare raccontandovi un sogno divertente che ho fatto l’anno scorso e che ci riporta alle genealogie femminili. Nel sogno una nonna, una madre, e tre figlie, tutte
molto grasse giacciono insieme a me su un grande letto matrimoniale. Io sono sul bordo. Mia madre si infila giusto nel mezzo del letto, e io cado dal letto. Cosa mi dice questo sogno?
Indubbiamente devo fare i conti con l’ingombro dato da queste genealogie femminili, che riempiono tutto lo spazio tanto da farmi cadere. Uno spazio da cui mi faccio espellere ma che e’
rappresentato da un letto. Un luogo quindi che ha a che fare con la vicinanza fisica e l’attrazione erotica. E’ un sogno quindi che mi parla della complessità di una relazione che attrae ma che
fa problema.
Io sento fortemente questo bisogno di alimentarmi con le parole e i pensieri di donne a cui attribuisco autorità. Un alimentarmi che mi permette di evolvere e di trovare un mio modo di stare al
mondo. L’incontro con alcune donne della libreria ha infatti rappresentato per me un altro modo di dare senso alla mia femminilità. Era la mia strada, diversa da quella di mia madre. Era la
possibilità che mi rendeva fiera di quello che potevo diventare. Mi ricordo che una delle prime volte che partecipavo alla redazione di Via Dogana, avevo detto, abbastanza in modo inconsapevole,
che il mio aderire al pensiero della differenza era stato un po’ come tradire mia madre. Probabilmente qualunque espressione di me stessa al di fuori del rapporto col femminile di tipo materno,
che a volte vivevo come inglobante, veniva vissuta come tradimento, come tentativo “colpevole” di nominare la necessità della distinzione.
D’altra parte lo stare in libreria individuando progetti in cui anche la mia competenza, la mia esperienza, le mie domande potessero essere valorizzate, come il sito della libreria ma anche
questo ciclo di incontri, per me ha voluto dire anche stare lì a lottare con l’autorità di alcune donne che mi davano moltissimo ma che per certi aspetti temevo.
Quando non riusciamo più a portare tutte noi stesse nella relazione perchè si teme il rifiuto dell’altra donna, si ha a che fare con l’assoluto materno. Quando, come diceva la Zamboni nell’ultimo
seminario di Diotima, i conflitti diventano irrisolvibili, o quando, dico io, non si riesce a mettere sul piatto il proprio dissenso, lì può nascondersi l’oscuro materno e ritornare l’arcaico
legame con la madre. Si rivive la madre onnipotente dell’infanzia, che aveva un potere immenso proprio perche' si trattava di un potere legato all'amore, alla sopravvivenza, all’origine. Quelle
di Diotima hanno parlato dell’oscuro materno che crea un cono d’ombra in cui si ritrovano le dinamiche di annullamento del sè nelle relazioni fra donne.
Per affrontare questo nodo e stare in libreria con agio per me è stato fondamentale trovare altre giovani donne con cui scambiare e darci forza reciprocamente. Questo mi ha permesso di non vivere
come distruttiva la dipendenza dalle donne a cui do autorità. Lo scambio con queste giovani donne, il gioco di rimandi continuo, di sguardi, di parole, di vissuto che condividiamo mi ha permesso
di poter trovare le energie per affrontare i conflitti senza permettere che l’emotività e l’arcaico materno distruggesse la positività della relazione con le donne che ci hanno preceduto. Dal
desiderio di scambio tra donne della stessa generazione e’ nato anche il gruppo delle Mirtiche che sta in questa ricerca di uno spazio, fisicamente separato, di discussione, dove poter far
circolare la parola libera, lontano da madri simboliche fondamentali, ma ingombranti. L’esigenza di questo luogo separato a mio parere e’ legato a questo ingombro e alla difficoltà di vivere
conflitti in cui si teme l’invasione dell’altro, o la distruzione della relazione. Senza questo spazio e quelle relazioni penso che sarebbe stato molto più difficile stare nella dipendenza.
Quello che qui vorrei far emergere e’ l’importanza di riconoscere la complessità, la contradditorietà e l’ambivalenza di questo rapporto che diventa relazione positiva nel momento in cui si
individua il punto di distanza che consente di aprire un rapporto e non autorizza a disporre dell'altro. La relazione con la madre dovrebbe a mio parere essere fatta di spazi, di pause, di
allontanamenti e avvicinamenti, di ritmi irregolari. Unità e distacco non dovrebbero essere solo momenti successivi nel tempo, ma maglie di una rete, anelli di una catena infinita.
Per mia figlia, che ha quasi 4 anni, tutto ciò che rappresenta il mondo femminile ha un valore enorme. E’ sempre incinta di 3-4 bimbe (lei ritiene, nonostante le mie spiegazioni, che saranno
i maschi a partorire i maschi), quando siamo in ascensore mi dice “come siamo fortunate mamma, che le ascensori sono femmine!”, i suoi miti sono 5 fate, tutte diverse, che grazie alle relazioni
fra loro combattono le streghe molto meglio dei maghi, che invece sono sempre in competizione. I maghi riescono a vincere solo quando riconoscono alle fate una competenza femminile di valore,
oltre alla capacità di darsi reciprocamente forza. E questi cartoni animati, che hanno un enorme successo anche tra le ragazzine adolescenti, sono i primi cartoni italiani che stanno spopolando
anche negli stati uniti. Il mondo femminile con cui viene a contatto e’ sempre più un mondo in cui può riconoscere una libertà fuori da ruoli prestabiliti e schemi tradizionali. Tra l’altro lei
si identifica tanto nelle fate quanto nelle streghe cattive, e anche questo mi pare un bel gesto di libertà.
Io d’altra parte l’accudisco, la porto ai giardini, e le racconto le fiabe, ma dedico molto tempo anche al mio lavoro che mi ha richiesto tanti anni di studio e mi porta in giro per il mondo,
e in più faccio politica, che e’ la mia passione, e sono quindi spesso fuori casa. Mentre il mio compagno diversamente da molti uomini, non ha scelto la carriera ma un lavoro tranquillo che gli
permettesse di mettere le sue energie anche altrove: letture, gli scacchi, la casa e la figlia. Così prende la metà di me ma passa molto del suo tempo a casa, che e’ un po’ il suo regno e che
cura con più dedizione di me. Inoltre ama tanto quanto me occuparsi della bambina e dedicarle tempo e attenzioni. E di quest’ultima cosa io gli sono molto grata perchè sempre più diviene per lei
un altro punto di riferimento che le consente di allentare quel legame fortissimo che rappresenta una tentazione verso la simbiosi. Mi aiuta a rendere la relazione con lei più complessa, e
solleva me anche da responsabilità che mi soverchierebbero. Non si tratta solo di avere tempo per sè, anche se questo non e’ poco, ma si tratta di poter fare un passo indietro per affrontare
meglio la paura legata all’esser messa su un piedistallo, al suo desiderio e le mie pretese di perfezione, quel tutto pieno che metterebbe in pace. Da quando mia figlia accetta volentieri di
passare del tempo con il padre e si diverte a giocare con lui per me e’ stato un sollievo, soprattutto per la paura di me stessa, per la paura della madre onnipotente che porto dentro di me. E
devo dire che, sebbene deve mettere molte più energie per attirare la sua attenzione, e’ un piacere anche per me vedere come creano la loro complicità e si divertono assieme.
La mia posizione quindi non ha nulla a che fare con la critica del primo femminismo che raccontava della lotta delle figlie per affermare la propria individualità rispetto a madri che non si
erano ribellate all’ideologia patriarcale. L’onnipotenza materna non e’ solo quello della madre mortifera che da supporto alla legge paterna della società patriarcale.
Secondo la Brusa c’è la devastazione ogni volta che la relazione tra donne oltrepassa una certa soglia, la distanza data dalla presenza di un terzo (uomo, padre, od obiettivo) che organizza il
desiderio. La devastazione sarebbe legata all’attesa, alla domanda. Si attende un riconoscimento che sanzioni un godimento. Una sanzione che lo riconosca e lo introduca nel mondo degli scambi
possibili.
Indubbiamente la funzione del terzo non implica il ritorno all’autorità patriarcale, e neppure deve essere assimilato automaticamente al principio maschile, e quindi al padre, alla legge. Il
terzo dovrebbe esser essere inteso come un differenziatore deputato ad evitare la confusione di identità, sarebbe un mediatore che dovrebbe impedire il dominio di una persona su un’altra.
La Brusa scrive nel suo libro che la funzione del padre non è data necessariamente da un uomo ma può anche non incarnarsi in una persona.
Carmen Martin Gaite, in Lo specchio materno di Anna Salvo, descrive la madre quando interrompe le sue attività quotidiane per guardare la finestra, e si
impossessa del suo tempo. In questo momento la madre si offre come una persona capace di vivere anche per sè, nel rispetto dei propri desideri e dei propri bisogni. Ed e’ questa capacità che
risulta incantatrice per la figlia. Ciò che l’affascina e’ di non avere perennemente bisogno di occuparsi della figlia per essere confermata nella sua persona. Ma penso che si tratti anche del
vissuto conflittuale della figlia rispetto ad una madre che sfugge, che non si comprende, nel senso proprio di averla in mano. Il mondo entra a mettere distanza, a creare uno spazio che rende la
madre altro da sè e permette alla figlia di trovare quella differenza che orienta il desiderio.
Così chiedo a Luisella Brusa e a voi: la libertà di poter disporre di sè, come per la madre di Martin Gaite, la capacità di individuare la posta in gioco e di dare valore anche a ciò che va oltre
la relazione, le altre relazioni duali che intervengono a fare spazio, come per me in libreria, potrebbero rappresentare quel terzo che permette di creare la distanza necessaria per evitare la
devastazione?
La parola a Luisella Brusa
“Questo invito che mi colloca dentro una lunghissima tradizione di cui Laura e Sara hanno dato gli elementi di una vastità e solidità assodata – inizia la psicoanalista lacaniana - e dunque la
mia presenza a qui è grata a loro e anche a Luisa Muraro, incontrata al seminario di Orvieto, la cui accoglienza benevola per quello che ho portato ha aperto la strada al
proseguimento di un percorso.
E’ un invito su dei temi di ricerca comuni a partire da discorsi differenti: il discorso femminista ripreso nella sua complessità e il punto di vista di cui mi occupo, che è molto particolare
preciso e vincolato a una pratica che è quello psicoanalitico. Quello che dico, lo dico a partire dalla pratica della psicoanalisi, dalla mia e da quello delle mie pazienti e a partire dal sapere
psicoanalitico che nella fattispecie si riferisce a Freud e Lacan per quanto mi riguarda.
Lacan perché ho trovato in lui gli strumenti per una ricerca che mi stava a cuore. E’ un punto di enunciazione particolare che si tratta di vedere in che modo incrociarsi in questo.
Il tema che hanno estratto come tema di interrogazione è questo oscuro e negativo nella relazione tra donne. E’ un oscuro che si incontra regolarmente nelle analisi femminili soprattutto con una
psicoanalista donna, si incontra soprattutto dopo un po’, dopo una fase in cui si mostra in primo piano l’idealizzazione. E’ un oscuro che è fatto di due versanti: un amore forte, particolarmente
forte e intenso, l’amore di una ricerca che scruta l’altra per trovare nell’altra qualcosa di se stessa ed è un amore talmente forte che è subito pronto a virare in invidia, odio, rancore. E’ un
amore instabile, è un amore odio non ben separati, molto prossimi però che scivolano molto facilmente nell’uno e nell’altro, dando luogo a le due facce di cui ho parlato nel libro che hanno
citato, dando luogo a una relazione di devastazione che spesso troviamo nei rapporti tra donne, tra madre e figlia in particolare, rapporti che si trascinano anche per tutta la vita in una
sofferenza estrema: amore e sofferenza, rivendicazione e odio. Quindi devastazione da un lato e rapimento dall’altro. Rapimento nel senso della adorazione statica e muta dell’una per l’altra. E’
un tipo di relazione specificatamente femminile perché non c’è nulla di analogo nei rapporti con gli uomini. La lotta per il prestigio fra gli uomini si svolge in un terreno organizzato in un
calcolo di punti e di tacche che deciderà alle fine il vincitore. Questo non ha equivalenti nei rapporti femminili e questa mancanza di misurabilità decide il vincitore e rende infinita senza
limiti e senza argini questa relazione. Ciò che mi ha interrogata è da dove viene questo tipo di odio amore, come mai si dà questo nelle relazioni tra donne tra madre figlia e tra figlia
madre.
C’è una risposta freudiana che è nota è cioè: la bambina esce dall’Edipo con l’invidia del pene e la conseguenza nel rapporto con la madre di questa invidia è il rancore per non averla dotata di
questo organo così valorizzato. La visione di Freud è complessa ma su questo punto questa è la tesi. Una tesi tutta dentro il sistema di rappresentazione edipico e dalla formazione della
soggettività data dall’Edipo con il padre edipico la madre edipica.
La tesi che sostengo nel libro appoggiandomi su Lacan è che questa devastazione non venga dall’Edipo. Si tratta di una tesi che valorizza questo tipo di relazione femminile per vedere
che cosa dice in positivo della femminilità. La tesi freudiana chiude il discorso: la femminilità è qualcosa che manca e dunque ne consegue un invidia e rancore. Se non consideriamo la
femminilità in questi termini ma piuttosto come qualcosa non definito dall’Edipo, diventa una posizione soggettiva che non è esaurita dalla posizione edipica cioè della donna come mancante del
pene.
A partire da questa lettura abbiamo la possibilità di leggere la devastazione e il rapimento in tutt’altri termini. Se l’uomo è interamente definito nella sua virilità e nel suo essere virile di
uomo dal fallo, la lotta di prestigio e identità si gioca sulla misura del fallo e dei suoi equivalenti (successo, carriera, macchine e donne, ndr). La donna, e questa è la tesi nota di
Lacan, non è interamente definita dal fallo. Cioè può averci a che fare ma non interamente. Dire così è diverso da definire la donna mancante. Può averci a che fare come con tutti gli equivalenti
fallici (potere, conquista, carriera, figli e uomini, ndr) ma questo non le dà un’identità come donna. Non è più donna perché ha più successo o carriera, quindi dà un’identità come soggetto ma
non come soggetto femminile. Ciò che di lei la fa donna è situato al di là del fallo e di là dell’Edipo. Al di là del padre, non viene da lui un’indicazione sul cosa vuol dire essere donna. Come
donna, presa per se stessa e non a confronto con l’uomo, non le manca niente. Sul suo corpo il godimento, è uno dei tratti essenziali in psicoanalisi per definire una soggettività, non si iscrive
come perdita, non si iscrive nell’alternanza fallica che definisce il godimento per l’uomo. Per la donna non c’è nulla di analogo, piuttosto il godimento si esprime nel suo corpo come un
supplemento, un qualche cosa in più che non si condensa in un organo, che è diffuso, che non si iscrive in un organo preciso il quale ha anche una funzione significante come il fallo.
Non si iscrive in un organo che sarebbe simmetrico del fallo, la falla. Non c’è la falla quindi che darebbe un’identificazione sessuale in un organo preciso con un significante che è quello che
fa la virilità.. In più il fatto che il fallo si condensi in un organo e passi a significante dà un rapporto particolare con la parola perché il fatto che il fallo abbia una funzione significante
permette al godimento fallico di passare integralmente nella parola e nella scrittura automaticamente. Questo non avviene dal lato femminile ed è qualche cosa che le donne sanno bene perché il
disagio delle donne con la parola, la fame di senso inesauribile, di senso ‘altro’ che Iride denunciava e su cui Luisa Muraro a Diotima ha lavorato. E’ qualcosa che ha a che fare con il rapporto
del godimento femminile che non è iscritto in un organo significante che passa al linguaggio. Dunque l’ipotesi che adesso dicevo è che questo oscuro femminile sia legato a questo supplemento che
non si lascia assorbire da un organo significante e un’identità. E che il noto disprezzo e rancore per la madre venga dal fatto che la figlia le imputa la responsabilità di questa impossibilità.
Il figlio maschio non ha questo problema e quindi può amare la madre senza rancore. La figlia imputa alla madre di non essere un padre, di non fare la funzione equivalente di un padre. Solo che
questo non è una colpa della madre è un dato di struttura della femminilità ed è contemporaneamente il suo valore incalcolabile: essere altro o altra dall’ordine simbolico organizzato in senso
fallico essere il punto di fuga dell’ordine simbolico organizzato in senso fallico. Essere il punto di fuga dell’ordine simbolico organizzato in senso fallico. Punto di fuga dell’ordine simbolico
che apre a qualche cosa che non è ordinato ma che ha più la forma dell’infinito. Questo supplemento, a cui è prossima, è un ombelico dell’ordine simbolico che la colloca in rapporta dell’aldilà
della presa del simbolico sul reale, al di là del potere di dominazione, di coincidenza delle parole con le cose che avviene dentro l’ordine simbolico. E’ un apertura diretta sul reale dove non
ci sono parole date. E’ un punto che apre sul senza nome e sul senza limite che facilmente precipita nell’oscuro; è un punto senza nome che poiché non c’è un nome a fermarlo si riempie con
regressione dal simbolico all’immaginario; la relazione passa da una relazione simbolica in cui ci si identifica con un nome e con un simbolo virile. Passa poiché c’è un vuoto a questo livello a
una relazione immaginaria una relazione allo specchio: io sono te e tu sei me con una conseguente perdita di sé.
E’ un punto non organizzato dal simbolico con cui le donne hanno particolarmente a che fare su cui si apre la forza pura dell’infinito che può essere anche l’infinito della perdita per via del
masochismo femminile. La forza pura dell’infinito o la forza pura della vita in quanto tale, slegata dalla forma datale dal simbolico.
Dunque è una prossimità maggiore con questo reale pulsante al di là dell’organizzazione simbolica che particolarmente prossimo alla vita, che non ha forma sul quale la madre non trasmette un nome
e chiuda la questione e con cui ciascuna donna ha da trovare un suo modo di averci a che fare da rendere vivibile. Questo reale pulsante che non ha una forma precostituita del fallo, che
non ha una modalità di godimento precostitutita. Che la madre non sia un padre e non funzioni analogamente a lui nella trasmissione permette che resti vivo e pulsante questo punto esterno al
simbolico che con la sua sussistenza relativizza l’ordine simbolico perché lo decompleta. Se il simbolico potesse coprire interamente il reale sarebbe la fine della differenza. E questo punto che
rimanda esterno all’ordine simbolico non riassorbile che preserva una differenza inconciliabile per essere resa vivibile dentro la pulsione di vita dentro la pulsione di morte che deriva
dall’oscuro, richiede delle invenzione particolare di ciascuna e non ripetibile. Non c’è un know-how, un modo di fare prefigurato. Ci sono delle testimonianze e del lavoro su questo di cui
la Libreria fa parte che è un lavoro di invenzione che ruota sulla scrittura intesa come uso particolare della parola, per coglierne quel versante che dà verso il reale
(Woolf, Duras, Lispector) che gioca sulla parola della lingua materna intrisa e prossima a un godimento non organizzato, quella che lavora non
sul senso ma sul suono e omofonia per dire qualcosa dell’indicibile che il simbolico tout court tradisce.
L’altra via è la mistica, nel senso su cui Luisa Muraro lavora, del rapporto diretto con l’altro mancante non con l’altro dell’ordine della legge ma dell’amore, che manca di qualcosa. La
mistica è un modo di rapportarsi con questo aldilà dell’ordine della legge ma con delle parole per dire l’indicibile di un esperienza d’amore con un altro particolare un altro mancante. L’amore è
una delle modalità per eccellenza delle donne per trattare questa apertura sull’infinito.